Ogni tanto capita. Ti svegli una mattina, ti guardi allo specchio, e ti chiedi: “Ma cosa sto facendo davvero qui?” E non parlo di quelle mattine in cui hai bisogno di un caffè triplo solo per ricordarti il tuo nome, ma di quelle domande serie, quelle che ti mettono a disagio.
L’idea mi è venuta per caso, scorrendo LinkedIn durante una pausa pranzo. Mentre addentavo un panino tristissimo (ma chi l’ha detto che il tonno e il formaggio vanno bene insieme?), mi appare un post: “Siamo alla ricerca di nuovi talenti, entra a far parte di una realtà dinamica e in crescita.” Quel “dinamica e in crescita” mi ha colpito come un pugno nello stomaco.
Non perché il mio lavoro non mi piaccia, ma perché ogni tanto mi chiedo se sia davvero il mio posto. È un po’ come stare in una relazione di lunga data: tutto va bene, ma a volte ti chiedi se ci sia qualcosa di più là fuori.
Così ho iniziato a fare quello che non si dovrebbe mai fare: guardare. Ho spulciato annunci, controllato recensioni su siti di opinioni aziendali, e persino immaginato come potrebbe essere firmare una lettera con un nuovo logo in fondo. Eppure, mentre lo facevo, sentivo un peso sul petto.
Colpa. Non so se è normale, ma mi sentivo come un traditore. Come se l’azienda fosse una persona, e io stessi flirtando con qualcun altro. Ho pensato al mio capo, ai colleghi, ai pranzi condivisi, ai piccoli successi. Mi sono chiesto: “E se andassi via? Chi farebbe le mie cose? Chi prenderebbe in carico i progetti a cui tengo?”
Sono assolutamente conscio del fatto che andrebbe tutto ampiamente aventi senza di me, ma un minimo di amor proprio mi porta a pensare a quella situazione per cui, tra qualche mese, la collega possa pensare ”ahhh, questo lo faceva Arturo…”
Questa lotta interna mi ha accompagnato per giorni. Da una parte, la voglia di crescere, di esplorare, di scoprire se posso fare di più. Dall’altra, il senso di lealtà verso un posto che, nel bene e nel male, mi ha dato tanto.
Poi ho capito una cosa: il lavoro è una strada a doppio senso. L’azienda non mi ha mai chiesto di restare per sempre, né io ho promesso fedeltà eterna. Il nostro rapporto è basato su uno scambio: io do il mio tempo, le mie energie, le mie idee, e loro mi danno uno stipendio, opportunità, esperienza.
Non c’è nulla di male nel chiedersi se sia il momento di cambiare corsia. Anzi, è un segno di rispetto verso se stessi. E, allo stesso tempo, non c’è nulla di male nel decidere di restare, ma con la consapevolezza di averci pensato davvero.
Alla fine, ho chiuso LinkedIn e ho scritto una lista. Da una parte, le cose che amo del mio lavoro attuale; dall’altra, quello che mi manca. È stato un esercizio liberatorio. Mi ha fatto capire che la mia insoddisfazione non è un tradimento, ma una chiamata a migliorarmi. Magari non cambiando azienda, ma cambiando prospettiva.
E la morale? Credo sia questa: non è mai sbagliato chiedersi se si può avere di più, ma è importante non dimenticare quello che già si ha. Il cambiamento non è un tradimento, è una possibilità. Ma prima di fare il salto, vale sempre la pena guardare bene dove stai mettendo i piedi. Perché a volte, quello che cerchiamo è proprio lì, dove siamo già.