Ci sono momenti nella vita in cui ti rendi conto che la realtà non è proprio come te l’avevano raccontata. Tipo quando da piccolo pensavi che da grande saresti diventato un astronauta e invece ti ritrovi a combattere con Excel. O quando scopri che “una birretta e poi a casa” è una delle più grandi menzogne della storia
…E poi c’è il colloquio di lavoro.
Lo ricordo benissimo. L’ufficio aveva un’aria accogliente, con quelle pareti di vetro che trasmettono trasparenza (spoiler: la trasparenza finirà esattamente lì), e il recruiter davanti a me sorrideva come se fossi il prescelto per chissà quale missione spaziale.
“Qui puntiamo molto sul benessere del dipendente”, mi aveva detto con voce calda, quasi paterna. “Abbiamo flessibilità oraria, smart working e momenti di team building per creare un ambiente sereno e stimolante.”
E io, ingenuo, ho annuito con entusiasmo. Dopo tutto, chi non vorrebbe lavorare in un posto che si prende cura di te come una mamma premurosa?
La realtà? La “flessibilità oraria” significa che puoi entrare quando vuoi… basta che non sia dopo le 9:01, altrimenti sei segnato a vita come il ritardatario del reparto. E puoi anche uscire prima, certo, ma solo se vuoi passare la notte a recuperare il lavoro che hai lasciato indietro.
Lo smart working? Ah, quello c’è davvero… ma più nel senso che “lavori ovunque”, nel weekend, in vacanza, in fila alla posta, la domenica mentre cerchi di guardare una partita.
E il team building? Quello è fantastico. Una volta ci hanno portato a fare rafting. Bellissimo, se non fosse che l’unica cosa che ho imparato è stato che i capi non cadono mai in acqua, mentre noi poveri cristi sì. Poi c’è stata la “cena aziendale con quiz”… che in pratica si è trasformato in una gara a chi fingeva meglio di divertirsi mentre il capo raccontava per la decima volta la sua storia sul “duro mondo del business”.
C’è un’altra frase che mi aveva convinto: “Qui premiamo il talento e la meritocrazia”.
Perfetto! Io ero pronto a farmi il mazzo e a dimostrare di valere, a guadagnarmi la mia promozione sul campo come un guerriero medioevale. Dopo un anno di impegno, progetti portati avanti da solo, ore extra non pagate e riunioni infinite, la mia ricompensa è stata… un buono Amazon e la frase “Sei una risorsa importante, continua così”.
Nel frattempo, il collega che sapeva solo annuire alle riunioni e dire “Interessante, poi ci aggiorniamo” ha avuto una promozione con tanto di discorso motivazionale del capo.
Altro grande classico del colloquio: “Abbiamo una cultura aziendale orizzontale, qui non ci sono gerarchie, siamo tutti alla pari”.
Tradotto: il capo fa finta di essere alla pari con te quando si tratta di dividere il conto della pizza in pausa pranzo, ma appena serve qualcuno che rimanga fino alle 22 a correggere i report, magicamente le gerarchie riappaiono più forti che mai.
E poi, la perla: “Qui valorizziamo il tempo libero”.
Ora, io non so bene cosa intendano loro per “valorizzare il tempo libero”, ma se il concetto è ricevere mail con oggetto “URGENTE” di sabato pomeriggio, direi che il mio tempo libero è valorizzatissimo.
Però, alla fine della fiera, il lavoro è un po’ come una relazione: all’inizio è tutto rose e fiori, poi arriva il momento in cui ti chiedi se hai fatto la scelta giusta. Ci sono giorni in cui pensi di andartene, giorni in cui ti senti apprezzato e giorni in cui vorresti mandare tutto all’aria e aprire un chiosco di granite ai Caraibi.
Eppure, nonostante tutto, qualcosa mi trattiene qui. Perché tra le promesse non mantenute e le aspettative disattese, ci sono anche colleghi con cui ridere, momenti in cui ti senti parte di qualcosa e giornate in cui, tutto sommato, capisci che il lavoro perfetto forse non esiste, ma puoi sempre trovare un modo per sopravvivere… e magari strappare un altro buono Amazon.